Dylan Dog n. 338: Mai più, ispettore Bloch – Recensione in anteprima

Pubblicato il 28 Ottobre 2014 alle 10:46

L’ispettore Bloch va in pensione. E’ finalmente arrivato il tanto agognato momento di lasciare Scotland Yard. Una svolta epocale, per lui e per Dylan Dog. Bloch sembra felice di avere il tempo per fare ciò che gli piace ma è davvero così idilliaca la sua nuova vita? Nel frattempo, la gente smette di morire e una faida criminale assume risvolti grotteschi. Mentre inizia ad avere dei sospetti sulla nuova vita di Bloch, l’indagatore dell’incubo deve capire per quale motivo anche la Morte sembra essere andata in pensione.

In un’opera di narrativa seriale i comprimari vengono creati con la scopo di supportare il protagonista attraverso modalità funzionali alle dinamiche del racconto che diventano riconoscibili e riconducibili per i fruitori abituali del prodotto. Sottrarre un comprimario al suo ruolo originale può significare privarlo della propria natura e della sua ragion d’essere. Parte da questa suggestione l’epocale pensionamento dell’ispettore Bloch, storico alleato di Dylan Dog comparso fin dal primo numero della serie.

Creato da Tiziano Sclavi che lo ha voluto con le fattezze dell’attore Robert Morley e il cognome dello scrittore di Psyco, Bloch era il superiore di Dylan quando l’old boy era un semplice agente di polizia. Dopo aver appeso la divisa al chiodo (senza riconsegnare il tesserino, ormai scaduto) ed essere diventato indagatore dell’incubo, Dylan si è guadagnato l’immeritata fama di ciarlatano che lo ha reso inviso alle massime autorità di Scotland Yard ma non ha mai impedito a Bloch di continuare ad aiutarlo e di fargli da figura paterna.

Sensibile alla vista del sangue tanto da dover ricorrere costantemente agli antiemetici, Bloch è sempre apparso stanco e annoiato dalla sua vita di ispettore desiderando la pensione senza soluzione di continuità. In qualche occasione Dylan ha affermato che Bloch, in realtà, era troppo affezionato al suo lavoro e che in pensione non ci sarebbe mai andato. E invece succede adesso in quella che è la prima grande svolta narrativa della serie sotto la supervisione di Roberto Recchioni.

In assenza di Sclavi, legittimo possessore della chiave di decodificazione di Dylan Dog, gli altri sceneggiatori hanno cercato di scardinare il personaggio tentando di interpretarlo nella maniera più genuina. Nel corso degli anni, la migliore in tal senso si è rivelata Paola Barbato, autrice coraggiosa in grado non solo di escogitare avvincenti meccanismi narrativi e di osare storie controverse ma anche di penetrare nella psiche di Dylan tirandone fuori quanto di più emotivamente autentico possibile.

Per questo storico albo, la sceneggiatrice torna a collaborare con il disegnatore Bruno Brindisi insieme al quale ha realizzato alcune delle storie più importanti della serie tra cui Il numero duecento nel quale veniva rivelato il tragico passato di Bloch. Qui, invece, la Barbato lo strappa alla sua dimensione cristallizzata di perenne ispettore, lo fa invecchiare e lo manda in pensione per sopraggiunti limiti d’età.

Il soprintendente, spauracchio rimasto nell’ombra in tutti questi anni tanto da assumere statura mitologica per i lettori, esce allo scoperto ponendo fine agli equilibri di un microcosmo che non avrà più Bloch come nucleo centrale. La metafora imbastita di conseguenza è piuttosto lampante. Perdendo la sua carica istituzionale, l’ex-ispettore rischia di morire nella sua veste di figura comprimaria del protagonista. Nello stesso momento, anche la Morte sembra andare in pensione e la gente smette di trapassare, nonostante incidenti mortali, estrema vecchiaia, malattie o quant’altro.

Un concept già visitato da Sclavi, in particolare nella storia Tre per zero (sempre coi disegni di Brindisi), ed è lo spunto per una vicenda deliziosamente grottesca punteggiata da gag surreali e spassose. L’assenza della signora con la falce non è però un vantaggio per tutti, a cominciare da Nora, la cliente di Dylan che è stata ferita fatalmente e vorrebbe che il suo decesso giunga a compimento. Anche per la criminalità organizzata non poter uccidere rappresenta un grave inconveniente, in particolare per un disonesto impresario di pompe funebri che rischia di chiudere bottega anzitempo.

Jenkins, maldestro agente di polizia che sta a Bloch come Groucho sta a Dylan, seppur con un opposto senso dell’umorismo, si ritrova intrappolato in un limbo esistenziale. Incapace di abbandonare il suo ruolo di spalla tanto da continuare a riferirsi a Bloch chiamandolo “ispettore”, deve staccarsi dallo status di malinconica macchietta per giocare un ruolo fondamentale.

La lettura è piacevole, sostenuta dal tratto realistico di un Brindisi magistrale e certosino nel cesellare espressioni fisiognomiche, nella minuzia delle ombreggiature e nell’arricchire di dettagli le scenografie con perizia maniacale. Alcuni dei misteri imbastiti dalla Barbato sono facilmente intuibili, altri reggono piuttosto bene. La sceneggiatrice ricorre spesso ai balloon pensiero, talvolta facoltativi, e riesce a vivacizzare lo spiegone finale grazie alla brillantezza dei dialoghi che non risultano semplicemente funzionali. Da antologia la battuta: “Io avevo le migliori intenzioni nell’ucciderti.” Il finale può richiamare alla mente Il Miglio Verde di Stephen King e sembra lasciare il discorso aperto per un eventuale sequel. La suggestiva cover di Angelo Stano cita un classico del fumetto supereroistico americano.

Se i lettori di Dylan Dog chiedevano una grande svolta e una ventata di novità, eccola qui, come promesso. Il mondo dell’indagatore dell’incubo è cambiato ed è soltanto l’inizio. Dobbiamo ancora conoscere l’ispettore che prenderà il posto di Bloch e capire quale sarà il nuovo rapporto di Dylan con Scotland Yard. Per ora, Paola Barbato e Bruno Brindisi ci regalano un albo da incorniciare, un gioiellino di metanarrativa dalla resa grafica superba. Auguri per la pensione, Bloch.

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