Swamp Thing di Alan Moore n. 3 – Recensione

Pubblicato il 15 Marzo 2012 alle 10:57

Si conclude con il terzo volume la leggendaria saga della Cosa della Palude scritta dal Bardo di Northampton, Alan Moore, e disegnata da Rick Veitch, Stephen Bissette, John Totleben e altri talenti del comicdom americano!

Swamp Thing di Alan Moore n. 3

Autori: Alan Moore, Stephen Bissette, John Totleben, Rick Veitch (testi), Rick Veitch, John Totleben, Stephen Bissette, Tom Yeates (disegni)
Casa Editrice: RW-Lion
Provenienza: USA
Prezzo: € 29,95, 16,8 x 25,7, pp. 368, col.
Data di pubblicazione: febbraio 2012

Quando si riflette su Alan Moore in genere si citano capolavori indiscussi come Watchmen, V For Vendetta, From Hell e altre opere ma c’è un altro splendido esito creativo del Bardo di Northampton: la sua fenomenale run di Swamp Thing. Le storie della Cosa della Palude immaginate dallo scrittore britannico rivestono un’importanza pari a quella dei lavori sopraccitati e hanno avuto una valenza eversiva, se non altro perché apparvero in un comic-book che, almeno formalmente, apparteneva ad una linea editoriale mainstream.

Anzi, è grazie a Swamp Thing se il fumetto americano fu innovato e rivoluzionato e la lunga sequenza di Alan Moore ha avuto il merito di anticipare la divisione for mature readers della DC Comics e cioè la Vertigo. Bisogna lodare quindi il Magus nonché i lungimiranti Len Wein e Karen Berger che diedero allo sceneggiatore la massima libertà espressiva.

Swamp Thing, creato da Wein e Bernie Wrightson negli anni settanta, era un character horror che all’inizio suscitò interesse. Dopo l’abbandono dei due cartoonist, però, la serie a un certo punto chiuse per poi venire riaperta agli inizi degli eigthies senza comunque suscitare grandi entusiasmi. Con il sangue freddo che lo contraddistingue, quando Alan giunse al timone della testata concluse senza tante cerimonie le trame in sospeso e creò un personaggio nuovo, stravolgendo e modificando radicalmente le atmosfere narrative del serial.

Swamp Thing rimaneva un comic-book horror ma l’orrore era psicologico e, benché non mancassero i cliché della tradizione gotica (vampiri, demoni, lupi mannari, spettri, e così via) Moore non ricorse a facili efferatezze, descrivendo un’America desolata e inquieta in cui le brutture più angoscianti non erano rappresentate dalle creature mostruose quanto dal razzismo, dalla mentalità reazionaria, dall’inquinamento, dal materialismo. I testi, inoltre, erano lirici e musicali, di chiara matrice letteraria, inusuali per i comics dell’epoca, ancorati a stilemi espressivi più convenzionali, e ricchi di rimandi alla poesia di Whitman, alla Beat Generation, alle controculture dei sixties. In un certo qual modo, Moore inserì suggestioni underground in una pubblicazione made in DC Comics, casa editrice considerata tradizionale.

Anche dal punto di vista tematico Moore osò molto, arrivando ad affrontare l’argomento della sessualità, con eleganza e raffinatezza, coinvolgendo direttamente la Cosa della Palude e la bellissima Abigail Arcane. La saga ‘American Gothic’, imperniata sulle macchinazioni della terribile Brujerìa, rappresentò inoltre la definitiva consacrazione della serie e del suo autore. Dopo la pubblicazione dei primi due volumi da parte della Planeta giunge in libreria quello che porta a conclusione la run di Moore, proposto da RW-Lion. Il libro include i nn. 51-64 del mensile originale, con un episodio scritto da Rick Veitch (che in seguito sostituirà Alan).

Se in precedenza Moore aveva insistito con l’horror, benché in maniera peculiare, nei numeri finali della sua gestione si avvicina alla fantascienza, filtrata da particolari che richiamano la new wave ballardiana, le visioni paranoiche di Philip K. Dick e qualche elemento cyberpunk; e i testi sono, come al solito, estremamente musicali e intensi e in alcuni momenti echeggiano gli esperimenti linguistici carroliani e joyciani (Alan, come aveva già fatto in ‘Pog’, inventa due lingue, il ranniano e il thanagariano nell’episodio in cui Swampy finisce sul pianeta Rann).

Dopo aver sconfitto la Brujerìa, Swampy deve salvare la sua amata Abigail da una nuova minaccia: quella del pregiudizio. Qualcuno, infatti, ha scoperto la sua relazione con la creatura e la ragazza viene denunciata per ‘crimini contro natura’. Con queste storie Alan punta il dito contro il moralismo retrivo dei bigotti, denunciando esplicitamente la mentalità fondamentalista di una parte della società statunitense. Ma non rinuncia ad utilizzare personaggi del cosmo DC come Batman, inizialmente simbolo del potere costituito e successivamente vigilante non privo di dubbi sulla liceità di certe rigide regole.

Dopodiché Swampy finisce nello spazio e qui Alan si sbizzarrisce con una sequenza incredibilmente psichedelica (le influenze delle teorie di Timothy Leary, degli allucinogeni e delle sostanze psicotrope sono palesi), con pianeti azzurri, piante aliene, strani componenti del Corpo delle Lanterne Verdi, un classico DC hero come Adam Strange sottoposto al trattamento mooriano (Adam, nella versione di Alan, è uno sprovveduto cowboy dello spazio che pensa al sesso!). In certi momenti, lo stile ricorda quello del cut-up burroughsiano e ciò è evidente nello straordinario episodio del n. 60.

In questo caso, l’ottimo John Totleben realizzò una serie di splash page, vere e proprie illustrazioni tra pop-art, psichedelia e astrattismo, e Moore inserì testi sperimentali relativi a una inconcepibile love story extraterrestre che rimanda alla narrativa hard science-fiction. Molti dettagli di questi episodi hanno poi fornito spunti ad autori come Neil Gaiman, James Robinson e Grant Morrison e i profondi conoscitori della produzione DC non mancheranno di accorgersene. Per giunta, considerando in che modo Alan usa character come Bats o Lex Luthor, c’è da pensare a come sarebbe potuto essere il DCU se il Magus avesse avuto la possibilità di giocarci in maniera più approfondita. E non rinuncia neanche, quando necessario, a collegarsi agli episodi classici di Wein (tramite l’Uomo Patchwork) o a quelli meno riusciti di Martin Pasko (con la tormentata Liz Tremayne che entrerà nella vita del bizzarro hippy Chester).

Quanto alla parte grafica, John Totleben, Rick Veitch e Stephen Bissette fanno un lavoro eccellente, con una costruzione inventiva delle tavole e un cromatismo esasperato in linea con l’eccentrica fantasia di Moore, in uno dei rari casi di perfetto equilibrio tra testo e immagine. Anche Veith, come scrivevo all’inizio, si cimenta nei testi di un episodio e, seguendo l’esempio di Alan, stravolge una classica invenzione kirbyana, Metron, in una vicenda, tanto per cambiare, dai forti contenuti allucinatori.

Riflessioni sul male. Sull’amore. Sulle precarie condizioni ambientali del pianeta (e questo prima dell’Animal Man di Morrison). Sulla natura corrotta del potere. Nonché sulla narrazione, spesso compromessa da esigenze commerciali (non trascurate la pagina finale dove una controfigura dello stesso Moore esprime tra le righe critiche al vetriolo nei confronti dell’aridità delle grandi compagnie!). Tutto ciò è stato ed è lo Swamp Thing di Alan Moore. Non lasciatevi sfuggire questa pietra miliare del fumetto americano e mondiale.

Voto: 8

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