Preacher 2×13: “The End of the Road” – Finale di Stagione | Recensione

Pubblicato il 13 Settembre 2017 alle 20:00

“Siamo sulla strada della redenzione …”

Esattamente come l’estate sta lentamente evolvendosi in autunno secondo il ciclo naturale delle cose, anche la stagione televisiva si prepara a cambiare con serie che dicono arrivederci ed altre che arrivano a sostituirle (per le tante novità in arrivo, date un’occhiata all’ottimo articolo del collega ed amico Federico Vascotto).

Dopo Il Trono di Spade e Twin Peaks, fra le serie che ci salutano si schiera anche Preacher, che chiude col botto la sua seconda stagione, senza però trasmettere una vera e propria sensazione di chiusura: nessun arco narrativo verrà portato a compimento entro i 55 minuti della puntata, anzi ne verranno aperti di nuovi e inaspettati.

Se nella gran parte degli episodi di Preacher 2 abbiamo potuto interrogarci sulla natura di Dio mentre Jesse e i suoi compagni (ma più Jesse che i suoi compagni) battevano i locali e i vicoli di New Orleans per trovarlo, il finale di stagione non risponderà alle nostre domande e non porterà Jesse al cospetto di Dio (ma, beffardamente, nell’ultima scena sarà proprio lo spettatore, e non il protagonista, a trovare l’Onnipotente, che a quanto pare è rintanato in una spartana ma tutto sommato accogliente camera d’albergo): il titolo, The End of the Road, non si riferisce tanto alla fine del viaggio dei protagonisti – che non raggiungono alcuna meta – quanto alla fine di qualcos’altro, qualcosa che forse è ancora più prezioso e importante.

Arrivati a questo punto, Jesse Custer si è trovato per forza di cose con i piedi in tre staffe: trovare Dio, salvare la relazione con Tulip e assumere il nuovo ruolo di Messia che vuole affibbiargli Herr Starr; The End of the Road prova a gestire le tre situazioni incastrandole l’un l’altra, ma sappiamo come in questa serie i protagonisti difficilmente riescono ad ottenere ciò che vogliono.

Pensate al Santo. Pensate a Cassidy. Pensate a suo figlio Denis (del quale finalmente non dovremo più sentir parlare).

In controtendenza invece risulta l’arco narrativo di Eugene (e soprattutto quello del suo apparentemente nuovo BFF Adolf Hitler): non solo perché è l’unico che giunge ad un vero e proprio compimento (nonostante sia assolutamente inutile ai fini della trama principale: se all’ultimo secondo in fase di post-produzione fosse stato tagliato e sostituito dai monologhi da strafatto di Cassidy nessuno se ne sarebbe accorto, né qualcuno si sarebbe lamentato) ma perché è anche l’unico che abbia una sorta di lieto fine. La scena al cospetto della Morte, poi, è una delle migliori della stagione per intensità, nonsense, scenografia ed atmosfera, e se per vederla abbiamo dovuto sorbirci i loop della morte di Tracy e tutti quegli inutili prigionieri dell’Inferno, beh, col senno di poi potrebbe anche esserne valsa la pena.

L’unica speranza è che nella prossima stagione Eugene e Adolf abbiano un ruolo meno marginale.

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