Spider-Man: Homecoming – Recensione

Pubblicato il 5 Luglio 2017 alle 09:09

Reduce dalla sua esperienza con gli Avengers, Peter Parker torna alla sua vita quotidiana a New York dove si barcamena tra i suoi doveri di liceale e l’attività da supereroe nei panni di Spider-Man. Mentre cerca di adattarsi al nuovo costume fornitogli da Tony Stark, Peter è intenzionato a dimostrare di valere più di un’amichevole Spider-Man di quartiere e decide di indagare su un traffico di armi con componenti aliene gestito dall’Avvoltoio.

Peter Parker ha sempre dovuto vedersela con bulli come Flash Thompson, anche nella versione guatemalteca di quest’ultimo fornita qui da Tony Revolori che ha fatto arrabbiare i soliti fan talebani, con tanto di insulti e minacce di morte all’attore (chi sarebbero i veri bulli?), e che, di conseguenza, ce l’hanno fatto apparire subito più simpatico. L’accordo tra Marvel Studios e Sony, detentrice dei diritti di sfruttamento cinematografico di Spider-Man, permette al supereroe di entrare nel Marvel Universe cinematografico come una matricola che deve dimostrarsi all’altezza degli Avengers.

L’atteggiamento dei Marvel Studios nei confronti dell’Arrampicamuri può apparire proprio come quello di un gruppo di studenti dell’ultimo anno che fanno tenere la cresta bassa all’ultimo arrivato. Il manifesto programmatico per la presenza di Spider-Man nel MCU è chiaro: Peter Parker deve fornire il punto di vista dell’uomo comune, deve stare in periferia, al gradino più basso della scala sociale dei supereroi laddove, ovviamente, gli Avengers ne rappresentano l’elite.

E’ uno Spider-Man che sembra non valere nulla senza Iron Man, apripista dell’intera saga, e senza il costume potenziato delle Stark Industries. Anzi, i neofiti avranno la sensazione che i superpoteri di Peter Parker non dipendano da un fattore biologico ma solo dal costume. Tra l’altro, il senso di ragno non viene mai citato e le origini del supereroe nemmeno riassunte. Si dà per scontato che il pubblico conosca già Spider-Man ed il film è strutturato come l’ennesimo episodio di una serie tv.

E ancora, se gli Avengers affrontano avversari di serie A e minacce intergalattiche e i precedenti Spider-Man se le sono date di santa ragione con pesi massimi come Green Goblin, Octopus e Venom, il nuovo Peter Parker deve vedersela, letteralmente, con i netturbini del Marvel Universe. Michael Keaton ha indossato le ali di Batman, poi ha criticato i blockbusters supereroistici sfoggiando quelle di Birdman e adesso torna al genere nei panni dell’Avvoltoio, qui inteso in senso stretto come uccello spazzino, leader di una gang che potrebbe essere sconfitta anche da un Hawkeye con la cataratta.

Queste sono le premesse ma, strada facendo, il film spazza via ogni pregiudizio. Il regista e co-sceneggiatore Jon Watts, d’estrazione indipendente, si è fatto conoscere con il sopravvalutato horror Clown (un pagliaccio fa paura in quanto tale, se lo trasformi in un mostro fino a fargli perdere i suoi connotati non è più un pagliaccio) e con l’appassionante Cop Car, opere che hanno in comune con Spider-Man: Homecoming il punto di vista adolescenziale, fornito qui da un Tom Holland dotato di una mimica corporea straordinaria, né frignone come Tobey Maguire né emo come Andrew Garfield, bensì un simpatico ragazzino qualunque, più teen che young adult, che cerca di venire sempre incontro alle responsabilità comportate dai suoi poteri combinando, strada facendo, un sacco di guai uso ridere.

Watts si rifà a commedie cult anni ’80 quali Bella in rosa, Ritorno al Futuro, Breakfast Club (si veda a tal proposito anche il recente Power Rangers), Una pazza giornata di vacanza (citato esplicitamente) e, nella sua struttura, soprattutto a Voglia di vincere. Gli adulti sono solo figure di riferimento. Tony Stark e zia May, figura paterna e materna, compaiono il giusto e non sono invadenti. Lo stesso Keaton, figura genitoriale disfunzionale, non gigioneggia e non si prende troppo spazio.

Peter Parker è l’unico vero protagonista e i comprimari sono i suoi compagni di scuola, un gruppo rigorosamente multietnico, a cominciare dal corpulento Ned Leeds (il filippino Jacob Batalon), autentico co-protagonista del film la cui chimica con Holland è esilarante; di Flash Thompson abbiamo già detto, poi ci sono le afroamericane Liz Allan (Laura Harrier), interesse sentimentale del protagonista, e Michelle (la cantante Zendaya) di cui si è fatto un gran parlare e che non serve assolutamente a nulla fino ad un mezzo colpo di scena nell’epilogo che ricorda quello del “Robin” di Joseph Gordon-Levitt ne Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno.

La trasposizione è un autentico spasso sia nella componente comica che permea l’intera narrazione ed è ricchissima di gag slapstick, sia in quella action che non si avvale purtroppo di una cgi all’altezza. La sequenza del monumento a Washington è senz’altro quella meglio congegnata, catastrofista ed esagerata quella del battello, più sciatta quella finale sull’aereo.

Tra le varie curiosità si segnala l’IA del costume di Spider-Man con la voce di Jennifer Connelly, moglie di Paul Bettany che è invece il JARVIS di Iron Man poi evolutosi in Visione. Due scene durante i titoli di coda. La prima annuncia il villain del sequel, già ampiamente spoilerato, l’altra si fa beffe del pubblico anche con una certa autoironia.

L’iconico tema musicale della serie animata di Spider-Man, qui riarrangiato in versione orchestrale ed epica da Michael Giacchino, esalta l’apice emotivo del racconto. Spider-Man non ha bisogno di sovrastrutture, non ha bisogno degli Avengers o di upgrade ipertecnologici. Gli basta il concept di base, simboleggiato dal suo costume fatto in casa, per dimostrare il suo valore. L’Arrampicamuri prenderà pure parte alle Civil War e alle Infinity War ma resterà sempre un amichevole Uomo Ragno di quartiere.

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