Ecco perché Logan è il nuovo The Dark Knight

Pubblicato il 11 Marzo 2017 alle 12:10

La parabola del revisionismo.

Capolavoro non è una parola che uso spesso, ma tanto nel caso di The Dark Knight, pellicola del 2008 scritta e diretta da Christopher Nolan, quanto nel caso di Logan di James Mangold, mi sembra doveroso rispolverarla e tirarla fuori dal vocabolario.

Da borioso cinefilo e studioso di cinema non mi sembra eresia voler accostare i due film, soprattutto considerando i tanti punti in comune e il successo globale, ottenuto a suo tempo dal primo e che il secondo sta invece riscontrando oggi.

Ere diverse, ovvio, ma non poi così tanto: l’era in cui viviamo oggi (cinematograficamente parlando) è stata profondamente segnata da quel film oscuro (così oscuro che aveva la parola oscuro già nel titolo); anzi si può affermare che sia proprio figlia di quel film.

Si è infatti perso il conto di quanti “reboot” o “remake” più oscuri degli originali siano stati messi in produzione dopo l’opera di Nolan, che diede il là al “revisionismo del cinecomic”.

Se da una parte, per questo revisionismo, bisogna ringraziare anche l’inflazione del genere supereroico, che ha praticamente intasato il circuito cinematografico (per esserci una revisione deve esserci un genere consolidato da revisionare) dall’altro bisogna ringraziare in primo luogo il signor Nolan.

Il Cavaliere Oscuro, del resto, è stato il primo cinecomic molto più cine che comic, e fu capace di mostrare al mondo che una produzione su un supereroe poteva essere sì elettrizzante e straripante di intrattenimento, sì commercialmente vincente, ma soprattutto anche sui generis, profonda e sofisticata.

Nolan mescolò l’arte cinematografica (e i suoi generi) con gli elementi pulp della bibliografia batmaniana e DC, dando vita alla sua personale visione artistica del mondo dei supereroi. La lezione fu recepita da altri artisti, e il genere dei supereroi divenne gradualmente il trampolino di lancio dal quale, uhm, lanciare – appunto – le proprie idee: pensate a Iñárritu, che con Birdman ha sfruttato il tema del supereroe per realizzare una commedia surreale ed esistenzialista; o a James Gunn, che ha fatto del suo Guardiani della Galassia una space opera a ritmo di rock anni ’80.

Ma dall’anno scorso il revisionismo si è spinto ancora più in là. Con Deadpool Tim Miller ha allargato il campo da gioco, abbracciando il Rated-R e passando ai supereroi per adulti (ci ha provato anche Zack Snyder, con la mastodontica versione di tre ore di Batman v Superman, ma la Warner si è voluta castrare da sola rilegandola al mercato home-video – ma questo è un altro discorso).

Comunque, Miller il suo revisionismo lo ha fatto coi toni della commedia parodistica, ironici, spassosi e dissacranti, e soprattutto lo ha fatto con stile e consapevolezza. Stile perché, beh, Deadpool is so cooool, no? Consapevolezza, invece, perché il buon Tim sapeva che, dopo Nolan, avrebbe ulteriormente cambiato il modo di approcciarsi al genere supereroi.

E infatti eccoci qui, appena un anno dopo, con un certo James Mangold e un certo Logan. 

La parabola ascendente del genere cinecomic sembra arrivata a suo compimento: il terzo capitolo della saga di Wolverine è infatti il concentrato di questa graduale ma inevitabile evoluzione, avendo assimilato tanto i toni drammatici e sofisticati de Il Cavaliere Oscuro quanto il concetto “supereroe per adulti” di Deadpool.

Il film di Nolan era oscuro, si, ma l’oscurità lì, a causa del PG-13, si limitava ad essere introspettiva, filosofica. Logan, essendo bollato Rated-R, quell’oscurità introspettiva e drammatica può permettersi di mostrarla a schermo, galvanizzando l’intrattenimento e al tempo stesso esteriorizzando il dolore psicologico e morale dei personaggi.

Nolan ci presentava Batman e Joker come le Due Facce (eh eh) della stessa medaglia, col supereroe tormentato dall’eventualità di essere stato esso stesso la causa della terroristica follia dilagante scatenata dalla propria nemesi. Mangold fa la stessa cosa con X-24, mettendo Logan letteralmente faccia a faccia col proprio passato.

In più, là dove il Batman di Nolan si muoveva in un contesto più stretto e personale, il Logan di Mangold è il tassello di un universo espanso molto più grande di lui ma al quale lui è indissolubilmente legato: l’iconografia e l’essenza di questi personaggi vanno ben al di là dei 130 e passa minuti di Logan, ma in Logan sono riassunte perfettamente e pulsano e trasudano (gli X-Men sono una presenza non visibile, un’aura tormentosa, un fantasma che riemerge dalle pagine di vecchi fumetti ammuffiti).

Nove anni fa Nolan mostrò la via fra mantelli, clown, caper e gangster movie e thriller politici; oggi Mangold a quella via ha aggiunto un nuovo sentiero, fatto di strade sterrate e polverose, sole cocente e sudore, sangue e western, che offre spunti sociali e politici capaci di rispecchiare questo opprimente presente fatto di pessime decisioni e gusti discutibili.

Ecco perché Logan è il nuovo The Dark Knight: non è il cinecomic che ci meritiamo, ma è quello di cui abbiamo bisogno.

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