Recensione – Il Diritto di Contare

Pubblicato il 10 Marzo 2017 alle 15:10

Houston, abbiamo un problema.

Così mormorava in cuffia un attonito Jim Lovell (Tom Hanks) nell’atto finale di Apollo 13, di Ron Howard, l’epica ricostruzione del viaggio spaziale verso la Luna dei tre sfortunatissimi astronauti americani.

L’opera di Howard viene fuori ne Il Diritto di Contare soprattutto durante le ultime scene – che Theodor Melfi ha palesemente strutturato in modo tale da rievocare le atmosfere di tensione così roboanti in Apollo 13 (tra l’altro Katherine Johnson, interpretata da Taraji P. Henson, avrebbe calcolato le traiettorie di volo dell’Apollo 11 e 13) ma il succo del film, la sua polpa, la sua vera essenza, non è tanto il riuscire a mandare l’astronauta John Glenn in orbita ellittica intorno alla Terra e farlo tornare giù sano e salvo: l’obiettivo è quello di riuscirci insieme, bianchi e neri, dalle stesse scrivanie, sulle stesse lavagne, con le stesse macchinette per il caffè e perché no, condividendo anche gli stessi bagni.

Come una sola nazione. Come i gloriosi Stati Uniti d’America.

E in questo il film di Melfi (secondo lungometraggio dopo il buon St. Vincent, con Bill Murray) riesce in pieno, portando a compimento una missione importante tanto quanto quella della NASA.

Dopo gli annunci ufficiali delle future missioni di esplorazione e colonizzazione di Marte, il panorama cinematografico si è rinvigorito di titoli sulla NASA.

Gravity a parte, abbiamo avuto blockbuster colossali sui pionieri dello spazio, gli esploratori in cerca di una nuova casa lontana dalla Terra: pensate a Interstellar, The Martian (tra qualche mese uscirà Alien: Covenant, che parte proprio dall’idea di colonizzare un nuovo pianeta) e così via.

Il Diritto di Contare invece va in controtendenza, raccontando l’inizio di questo sogno esplorativo portandoci all’alba dei lanci spaziali. Nel farlo ci riporta anche agli albori di una società moderna, durante gli ultimi sgoccioli della segregazione razziale, raccontando la sofferenza generale di un popolo attraverso l’esempio particolare di tre individui.

Ci immergiamo così in una delle più grandi vergogne della storia dell’umanità, che anche se di lì a pochi anni sarebbe diventata un brutto ricordo, nel ’61 era ancora una triste realtà.

Ne sanno qualcosa Katherine Johnson,  Dorothy Vaughan e Mary Jackson (la già citata Henson, la vincitrice del premio Oscar Octavia Spencer e la cantautrice Janelle Monáe), tre donne di colore impiegate della NASA che dovettero farsi largo tra il dilagante razzismo e l’opprimente sessismo per ottenere i dovuti riconoscimenti nell’ambito lavorativo.

L’attualità dei temi affrontati da Melfi è commovente e l’ottima sceneggiatura (firmata da Allison Schroeder e dallo stesso Melfi) riesce a far presa su chiunque possa definirsi un essere umano.

La storia in effetti è talmente potente che alla regia Melfi fa il minimo indispensabile, limitandosi a qualche trovata visiva (la scena dello specchio fra la Spencer e l’ottima Kirsten Durst, che gioca sui riflessi e sembra dirci: “eccole, due donne uguali, nello stesso bagno, ognuna riflessa nello specchio dell’altra, paritarie in ogni aspetto al di là del colore della pelle”) e mettendo a disposizione la sua camera al talentuoso cast corale.

Ottime le tre protagoniste, i cui rispettivi archi narrativi vengono sviluppati egregiamente, e bravissimi gli attori di supporto.

In particolare da lodare la passione di Kevin Costner (che ricorda quella del Jim Garrison che l’attore impersonava in JFK di Oliver Stone), l’austerità della sopracitata Durst e l’umanità di Glen Powell nei panni dell’astronauta Glenn, l’unico che va a salutare le impiegate nere (segregate anche sulla pista d’atterraggio e separate dai colleghi bianchi) e sempre molto affascinante (c’è un’ottima battuta sul fascino e le unioni interrazziali, mascherata da momento comico in bocca alla Monáe).

Intelligente, inoltre, la scelta di affidare a Jim Parson un ruolo particolarmente sgradevole, evitando così il rischio di scimmiottare quello comico (e ormai iconico) sfoggiato in The Big Bang Theory.

Poveri gli effetti speciali che denotano un budget ristrettissimo, ma ottimi i costumi, lodevole il design e la ricostruzione dell’ambientazione e pregevole la colonna sonora di Hans Zimmer.

Il Diritto di Contare è un film molto derivativo, che pesca a piene mani da tante produzioni differenti, mischiandole fra loro in maniera esemplare. Se vi piacciono i film sui matematici cervelloni che scrivono un mucchio di geroglifici alla lavagna (La Teoria del Tutto, A Beautiful MindThe Imitation Game, Genio Ribelle) questo film vi piacerà; se vi piacciono i film sul vergognoso trattamento riservato agli afroamericani (come i recenti Selma, The Butler, ecc.), questo film vi piacerà; se vi piacciono i film sulla NASA e lo spazio, questo film vi piacerà.

Insomma, ci sono un mucchio di ragioni per le quali questo film potrebbe piacervi. La prima è che si tratta di un ottimo film. E se l’anno prossimo Damien Chazelle e Ryan Gosling ci porteranno sulla luna nel biopic su Neil Armstrong, già da oggi possiamo scoprire come iniziò il programma spaziale statunitense, e grazie a chi.

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