Recensione – I Don’t Feel at Home in This World Anymore

Pubblicato il 7 Marzo 2017 alle 15:00

Il debutto alla regia di Macon Blair vede Melanie Lynskey ed Elijah Wood protagonisti di un commedia esistenziale che travalica i generi.

Avete presente le palle di neve dei cartoni animati? Di quelle che, se posizionate sulla vetta di una montagna iniziano a rotolare, e più rotolano più diventano grandi e inarrestabili?

E’ proprio questa la sensazione che si ha nel guardare il primo film dell’attore-ora-regista Macon Blair: quella di essere schiacciati dalla causale inevitabilità degli eventi, che proprio come una pallina di neve cresceranno fino a travolgerci.

Una deliziosa e azzeccatissima combinazione di personaggi idiosincratici da dramma e toni da commedia dell’assurdo, che col passare dei minuti si fa sempre più violenta e oscura.

Ruth, una donna normalissima alle prese con i tipici problemi di una tipica quotidianità, scopre che la sua casa è stata svaligiata. La sua opinione verso la società era già pessima prima di quella disavventura personale, ma da quel momento qualcosa in lei cambia e Ruth si rende conto che, in questo mondo spietato, nessuno è pronta ad aiutarla. A parte, forse, uno strambo nuovo vicino di nome Tony. Insieme i due si metteranno sulle tracce dei responsabili della rapina, innescando una serie di eventi imprevedibili e forse, estremamente drammatici.

Nei primi passaggi la macchina da presa e le musiche (orchestrate dai fratelli del regista, Brooke e Will) accompagnano Ruth nello spiacevole disagio provato a causa della rapina, ma anche e soprattutto della totale immobilità che è il pantano della sua vita. L’umorismo sottile e molto dark permea tutta la vicenda (il senso di alone tragicomico è riassunto dalle ultime parole della sboccata vecchietta nella scena dell’ospedale) ma è molto ben diluito e ottimamente bilanciato dai toni esistenzialisti e nichilisti con cui la protagonista esamina il mondo intorno a lei.

Un mondo che sembra quasi post-apocalittico per come viene descritto da Blair,  con questi quartieri assolati ma completamente deserti, in cui ognuno passa il proprio tempo ad occuparsi esclusivamente dei propri affari, cieco, sordo e muto dinanzi ai problemi degli altri. L’unico che si preoccupa di ciò che è accaduto a Ruth è Tony, un Elijah Wood che sembra la versione asciutta e spilungona del personaggio di John Goodman ne Il Grande Lebowski.

Il film, la cui sceneggiatura è firmata dallo stesso Blair, riesce a gestire questo gioco di equilibri fra ilarità e fatalità senza mai sentirsi fuori luogo e restando sempre fedele a se stesso. Unica pecca a livello narrativo è l’introduzione dei villain, che fa perdere organicità a tutta la vicenda: serve ad impostare la rotta di collisione fra buoni e cattivi, ma l’abbandono del punto di vista su Ruth sembra sempre molto forzato.

La fotografia di Larkin Seiple sfrutta tantissimo il controluce, coi raggi del sole che ammantano anche le immagini più sgradevoli di un bagliore ingannevolmente tranquillo. La colonna sonora versatile è la chiave che sblocca le numerose transizioni di questa imprevedibile vicenda.

Divertente il cameo di Blair nella scena del bar, quando spoilera alla protagonista il finale del libro che lei sta leggendo. Una sequenza che ha il sapore di un avvertimento: a volte per non rovinare l’idillio è meglio non essere troppo curiosi.

In altre parole, non ammassate palle di neve sulla cima di una montagna o presto o tardi vi ritroverete inseguiti da un’enorme valanga.

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