CinemaForever #9: Ridley Scott e l’arte della messa in scena

Pubblicato il 16 Settembre 2016 alle 12:00

Nono appuntamento con CinemaForever: oggi analizzeremo l’invidiabile carriera di Ridley Scott, regista che nel corso degli anni è stato capace di reinventarsi continuamente spaziando attraverso tutti i generi cinematografici possibili.

Tutto deve passare per le mani del regista, e sta a lui dire si o no. Viene il momento, durante la produzione, in cui bisogna alzare la voce e picchiare i pugni sul tavolo e dire “Qui comando io”.

Ridley-Scott

E’ celebre, di Ridley Scott, l’indomabile passione per la fotografia. Passione che per forza di cose non verrà abbandonata con il passaggio dalla macchina fotografia alla camera cinematografica, anzi: visto che il Ridley Scott regista è talmente versatile che è impossibile associarlo ad un genere in particolare, la sua peculiarità artistica dev’essere ricercata proprio nella cura maniacale con la quale mette in scena le immagini partorite dalla sua fantasia.

Nato in Inghilterra nel ’37, a South Shields, nella contea del Tyne and Wear, ad un passo dal Mare del Nord, Scott esordisce come regista pubblicitario, campo nel quale si farà ben presto un nome: un nome troppo grande, però, con aspirazioni che vanno ben al di sopra di un buono spot televisivo.

Lo sbarco nel mondo del cinema arriva nel ’77: riuscito a trovare dei finanziamenti che lo soddisfano, realizza il notevole e pregevole I Duellanti, con Harvey Keitel e Keith Carradine, un dramma storico ambientato durante il periodo napoleonico che oltre a mettere in scena quello che è considerato come “il secondo miglior duello della storia del cinema” rappresenta anche, e soprattutto, la triste ed inesorabile parabola dell’Imperatore francese: Napoleone non apparirà mai sullo schermo, ma la sua sorte è raccontata idealmente attraverso la figura del personaggio di Keitel, che da fiero guerriero alla fine risulta umiliato e sconfitto.

Scott può vantare (e sono pochissimi altri a poterlo fare nel mondo del cinema) una tripletta consecutiva di inestimabile e irripetibile grandezza: dopo I Duellanti, infatti, i suoi lungometraggi successivi saranno Alien Blade Runner, forse i film di fantascienza che più di tutti hanno segnato un’epoca e gettato le basi per quello che sarebbe venuto dopo.

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Mentre il primo, Alien, non si fece solo pilastro fondamentale di un intera saga – che va avanti ancora oggi, e che negli anni è stata proseguita da nomi di un certo calibro (James Cameron e David Fincher, ma anche dallo stesso Scott in Prometheus e il futuro Covenant) – ma anche colonna portante del genere fantascientifico, con Blade Runner Scott inventa da zero un intero filone, quello cyberpunk, di cui il suo film si fa ovviamente capostipite.

Considerati entrambi cult indiscussi e sempre nelle prime posizioni di ogni classifica dei migliori film di sempre degna di questo nome, i due lungometraggi sono entrambi banchi di prova a dir poco ardui da superare (sono celebri i problemi sul set di Blade Runner, quasi mitologici, e talmente tanti da non consentirci di parlarne in questa sede), ma Scott si mette in gioco ed in entrambi i casi la spunta con risultati che vanno al di là di ogni aspettativa.

Alien attinse a piene mani dal filone horror/fantastico in voga per tutti gli anni ’50, spogliandolo dei mantelli gioviali e dei ghirigori fanciulleschi che lo caratterizzavano. Il concetto di fanta-horror viene estremizzato e immerso nella cupa atmosfera del decennio degli eighties ormai alle porte (che Alien, con le sue atmosfere claustrofobiche, aiuta ad inaugurare): tutto è cupo, tesissimo, pessimistico, metafisico.

Armandosi del suo infallibile senso del ritmo, Scott crea un comparto scenografico fino ad allora senza pari (superato poi da Blade Runner) che rifugge ogni ambiente bianco e geometrico stile NASA (o stile 2001) in favore di astronavi dal taglio gotico, scurissime e buie, con i cavi elettrici che si imbrogliano alle pareti, macchinari tecnologici retrofuturistici e androidi freddi e calcolatori nei confronti dell’umana specie.

Poi, come detto, verrà Blade Runner. La sceneggiatura si ispirò liberamente al romanzo Il Cacciatore di Androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?, in originale) dello statunitense Philip K. Dick, ma Ridley Scott non si accontenta di copiare e va oltre, molto oltre.

Padre del già citato filone cyberpunk e perfetto esempio di neo-noir, Blade Runner incanta per il ritmo poetico e vagamente sognante che trasuda da ogni fotogramma, inanellati in una serie di sequenze pregne di una complessità tematica raramente sfiorata dal cinema di genere. La paranoia, la volontà di cogliere la realtà attraverso lo sguardo e inseguirla poi grazie ai ricordi, filosofia allegorica e argomenti religiosi velati con la tragedia edipica, su cui ci si interroga sotto il punto di vista morale ed etico attraverso l’espediente della clonazione.

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In breve, il film analizza il significato e lo scopo dell’essere umani, frapponendo la crudele freddezza e il rigido egoismo delle figure umane presenti nel film con gli sfaccettati comportamenti degli androidi (dalla compassione dell’antagonista, Batty, di cui è celebre il monologo finale, all’amore che la famme fatale Rachael scopre di provare per il protagonista).

Con Blade Runner Scott filma la sua opera più personale e completa, e allo stesso tempo dimostra di aver assimilato a fondo la lezione di George Lucas (quella di un futuro scenograficamente non più immacolato, come agli albori del genere fantascientifico, ma piuttosto sporco e logoro e dall’aria assai vissuta), al punto da essere in grado di farla sua e rimodellarla in toni più dark, più soverchianti.

Come un’ape che si sposta spasmodicamente di fiore in fiore, così Scott esplorerà l’arte cinematografica dalla commedia (Thelma e Louise, Il Genio della Truffa, Un’Ottima Annata) alla guerra (Black Hawk Dawn, Nessuna Verità), passando per il crime (American Gangster, The Counselor), per tornare alla sua amata fantascienza con l’acclamato The Martian.

Torna alla ribalta mondiale con un altro esempio calzante di messa in scena perfetta, Il Gladiatore, che riporta in auge il genere storico-epico che all’epoca era scomparso dai radar già da parecchio tempo (dopo Il Gladiatore arriveranno infatti Troy, 300, e simili, compreso Le Crociate dello stesso Scott). Il film è la rivelazione dell’anno e vale a Russel Crowe il premio Oscar come miglior attore, ed inaugurerà il proficuo sodalizio Scott-Crowe.

Tre volte candidato al premio Oscar ma mai vincitore, Ridley Scott è forse l’emblema (insieme a Kubrick) di quanto siano poco attendibili, a volte, i riconoscimenti nel campo del cinema. Si può creare arte senza che nessuno te ne riconosca il merito, ma la tua creazione sempre arte resterà.

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Non mancate al prossimo appuntamento con CinemaForever: per festeggiare il decimo episodio della rubrica, in via del tutto eccezionale la nostra chiacchierata riguarderà i migliori registi della nuova generazione! A presto!

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