Bumblebee di Travis Knight | Recensione

Pubblicato il 21 Dicembre 2018 alle 11:30

Arriva in Italia Bumblebee di Travis Knight, primo spin-off standalone del fortunato franchise dei Transformers creato e prodotto da Michael Bay.

Travis Knight con Bumblebee non riesce a fare meglio di quanto fatto con Kubo e la Spada Magica, ma di certo riesce a rinnovare con piglio deciso e idee chiarissime il franchise di Transformers, che di certo non aveva bisogno di lui dal punto di vista degli incassi ma che esce piuttosto rinvigorito da questa operazione meno fracassona e più sentimentale. Che poi, passando dai termini matematici a quelli cinematografici, vuol dire meno Michael Bay e più Steven Spielberg: il primo, che ha lasciato la regia ma è rimasto in produzione, ha fatto il posto al secondo, che come nei precedenti capitoli figura sempre come produttore esecutivo ma che Knight decide di prendere a modello, punto di riferimento, fonte di ispirazione e qualsiasi altro modo di dire possa venirvi in mente.

Bumblebee è un film spielberghiano sotto tutti i punti di vista. Knight trae spunto da tutti i modelli di quel tipo di cinema d’intrattenimento, la periferia americana, la classe media, la protagonista giovane e sola che vive all’interno di un contesto familiare difficile, la quotidianità che sembra una triste apatia da cui è impossibile evadere. E poi l’arrivo del fantastico, della magia, dell’alieno, che irrompe e frantuma quella quotidianità, permettendo alla protagonista di sprigionare il proprio di io, di intraprendere quell’avventura incredibile e straordinaria che, oltre a cambiarla per sempre, delineerà la persona che era destinata a diventare.

Anche se non arriva mai a quei livelli, il film prova a rincorrerli di continuo, li guarda con ammirazione e li imita, facendosi un po’ E.T. – L’Extraterrestre e un po’ Il Grande Gigante Gentile. Come mai prima d’ora in questa saga ci si prende una pausa delle esplosioni vorticose, dall’azione esagitata e dalle riprese in parallasse per fermarsi un secondo e fare il punto della situazione, chiedersi quali emozioni e sentimenti possa suscitare l’arrivo sulla Terra di alieni robotici senzienti.

L’idea di questa parentesi emotiva è perfetta per il più simpatico dei Transformers, Bumblebee, e infatti in questo senso il film funziona benissimo, soprattutto grazie a come viene raccontato il rapporto di amicizia fra il robot-maggiolino e la Charlie di una splendida Hailee Steinfeld: tutto il film ruota intorno a loro due, alle decisioni che devono prendere e a come riusciranno ad influenzarsi a vicenda, a migliorarsi sia fisicamente che sentimentalmente, con Charlie che da ragazza introversa troverà la forza per ricoprire un ruolo che storicamente, socialmente e politicamente spetterebbe invece ad altri (“Il mondo è già stato salvato” dirà John Cena al co-protagonista Jorge Lendeborg Jr., interesse amoroso della protagonista relegato a siparietto comico).

Ma a forza di sottrarre Bay e aggiungere Spielberg, più che un film sui Transformers questo Bumblebee a lungo andare diventa la versione live-action de Il Gigante di Ferro, solo che l’Autobot giallo non è così gigante e soprattutto Knight non è Brad Bird. L’azione, per quanto sempre ordinata e ben orchestrata, non è quasi mai esaltate, o almeno non così esaltate: detta così sembra la storia della coperta corta, ma svolgere il compitino in maniera diligente non può passare per motivo di vanto.  

Resta il fatto che si tratta sicuramente del più riuscito episodio della saga, ma non è che la competizione fosse così serrata.

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